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Alimenti, medicinali, bevande e altri prodotti di uso comune devono per legge riportare una data di scadenza sulla confezione per garantire la sicurezza del consumatore ed evitare così che vengano ingeriti prodotti deteriorati che possono provocare intossicazioni.
La data di scadenza che normalmente leggiamo su moltissimi prodotti è la data fino alla quale un alimento è idoneo al consumo, se mantenuto nelle corrette condizioni di conservazione. La data si compone dell’indicazione, nell’ordine, del giorno, del mese, e dell’anno, con le seguenti modalità
– per i prodotti alimentari conservabili per meno di tre mesi, è sufficiente l’indicazione del giorno e del mese (es. yogurt, prosciutto confezionato in vaschette di plastica)
– per gli alimenti conservabili per più di tre ma non oltre diciotto mesi, è sufficiente l’indicazione del mese e dell’anno (es. olio extravergine di oliva, caffè)
– per i prodotti alimentari conservabili per più di diciotto mesi, è sufficiente l’indicazione dell’anno (es. pomodori pelati, legumi, biscotti secchi).
Accanto alla data di scadenza vanno specificate le condizioni di conservazione ed eventualmente la temperatura in funzione della quale è stato determinato il periodo di validità. Prima di parlare dellaconservazione e salubrità di un prodotto è necessario quindi analizzare con attenzione la data di scadenza e comprenderne il significato non solo legislativo, ma soprattutto biologico. Qual è il vero significato del processo di scadenza di un alimento? Che cosa dice la legge italiana al riguardo?Quali cibi realmente necessitano di una data “entro la quale essere consumati” ? Cosa significa che un cibo scade dal punto di vista chimico-biologico?
In questa guida cercheremo di dare delle risposte pratiche e utili a queste domande soprattutto per evitare inutili sprechi alimentari ed economici.
Legge sulla scadenza degli alimenti
La legislazione in materia di scadenze e alimentazione non è particolarmente ricca; per questo vengono qui riportati i tre Decreti Legislativi principali ai quali devono fare riferimento tutti i produttori prima di commercializzare i loro alimenti
Negli ultimi 20 anni in Italia sono stati emanati diversi Decreti Legislativi in materia alimentare (etichettatura dei prodotti alimentari, caratteristiche della data di scadenza, pubblicità, ecc), il primo dei quali nel 1992. Si tratta del Decreto Legislativo n. 109 a cui sono seguite Direttive Europee successive, concepite come sue modifiche. Questo decreto riguarda principalmente il problema dell’etichettatura alimentare e impone l’esposizione di specifiche informazioni che tutelano il consumatore. Secondo l’Art.3 del D.lgs. 109 i prodotti preconfezionati destinati al consumatore devono riportare le seguenti informazioni
– la denominazione di vendita
– l’elenco degli ingredienti
– la quantità netta;
– il termine minimo di conservazione o, nel caso di prodotti molto deperibili dal punto di vista microbiologico, la data di scadenza;
– il nome o la ragione sociale o il marchio depositato e la sede o del fabbricante o del confezionatore o di un venditore stabilito nella Comunità Economica Europea;
– la sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento;
– il titolo alcolometrico volumico effettivo per le bevande aventi un contenuto alcolico superiore a 1,2% in volume;
– le modalità di conservazione e di utilizzazione qualora sia necessaria l’adozione di particolari accorgimenti in funzione della natura del prodotto;
– le istruzioni per l’uso, ove necessario;
– il luogo di origine o di provenienza, nel caso in cui l’omissione possa indurre in errore l’acquirente circa l’origine o la provenienza del prodotto.
Dopo circa un decennio, sono stati modificati alcuni articoli del D.lgs. 109 con un nuovo Decreto, il n. 68 emanato il 25 febbraio 2000. Questa nuova Direttiva Europea introduce il concetto di “termine minimo di conservazione” definito come “la data fino alla quale il prodotto alimentare conserva le sue proprietà specifiche in adeguate condizioni di conservazione”.
Sui prodotti preconfezionati rapidamente deperibili dal punto di vista microbiologico e che possono costituire, dopo breve tempo, un pericolo per la salute umana, il termine “minimo di conservazione” è sostituito dalla data di scadenza; essa deve essere preceduta dalla
dicitura “da consumarsi entro” seguita dalla data stessa o dalla menzione del punto della confezione in cui figura.
Se il prodotto alimentare ha una scadenza limitata entro i 3 mesi, la dicitura da riportare sulla confezione deve essere “da consumarsi preferibilmente entro il …” seguita dall’ indicazione del giorno, mentre negli altri casi si deve utilizzare la dicitura “da consumarsi preferibilmente entro la fine”.
Nel 2003 un nuovo decreto (D.lgs. n. 181) introduce ulteriori elementi di chiarezza per i prodotti alimentari ed in particolare richiede maggiore trasparenza per i consumatori stabilendo che le indicazioni poste sull’etichetta non debbano indurre in inganno, soprattutto in merito alla natura, identità, qualità, composizione, conservazione, origine e fabbricazione dei prodotti. Queste diciture non devono evocare proprietà o effetti che il prodotto in realtà non possiede, come ad esempio proprietà curative, che sono prerogativa di alcuni prodotti aventi caratteristiche particolari e soprattutto comprovate mediante apposite analisi.
Da questa breve analisi dei decreti legislativi si può comprendere che negli anni sono state ricercate regole chiave per informare correttamente il consumatore sulle caratteristiche del prodotto che sta acquistando. La legge non è invece entrata nel merito della salubrità e scadenza dei singoli prodotti ad eccezione di latte e uova, per i quali vi sono regole ben precise: il latte fresco scade dopo 5 giorni dal confezionamento (in pratica 4 giorni dalla vendita), il latte a lunga conservazione dura al
massimo 90 giorni e le uova 28 giorni.
Se non vi sono obblighi di legge, chi stabilisce quindi la scadenza dei prodotti alimentari? Chi definisce quando scade la pasta, il riso, la farina, la carne …?
A stabilirne la durata degli alimenti sono gli stessi produttori o coloro che confezionano i prodotti, in base a diversi fattori tra cui il processo produttivo ed il trattamento tecnologico, la qualità delle materie prime, il tipo di lavorazione, di conservazione e di imballaggio. E’ quindi importante sottolineare che spetta alla singola azienda il compito di effettuare controlli organolettici sui propri prodotti a diversi tempi e dopo aver valutato differenti sistemi di conservazione e, in base ai risultati, stabilire quanto un prodotto deve essere considerato alterato ovvero scaduto. Le aziende eseguono pertanto in prima persona, o avvalendosi di servizi esterni, test microbiologici e chimico fisici sui loro prodotti, per misurare la crescita microbica, le eventuali alterazioni chimiche, della forma, le proprietà nutrizionali e la salubrità in genere.
In base a queste considerazioni la prima informazione utile che vogliamo sottolineare per i consumatori è che “la maggior parte dei cibi non ha scadenze fissate ma le aziende che li producono valutano quale debba essere la data più consona”. Questo significa che in base alla qualità delle materie prime, ai sistemi di produzione, ai conservanti utilizzati, la stessa tipologia di prodotto può avere scadenze differenti e questo spesso dipende da una scelta aziendale del produttore. Il consumatore potrà quindi scegliere lo stesso alimento con periodi di scadenza molto diverse
Come Interpretare la Scadenza
Spesso capita di rimanere dubbiosi di fronte alle date di scadenza che riportano le diciture “da consumarsi preferibilmente entro il …” oppure “consumare preferibilmente entro la fine …”. Queste diciture possono creare ambiguità e perplessità riguardo alla reale scadenza del prodotto che abbiamo acquistato. Cosa potrebbe succederci se consumassimo il prodotto dopo tale data? Vediamo quindi di fare un po’ di chiarezza.
Sui prodotti non rapidamente deperibili la data di scadenza è sostituita dal termine minimo di conservazione, espresso dalla dicitura “da consumarsi preferibilmente entro …”, che rappresenta la data fino alla quale un alimento conserva le sue proprietà specifiche in adeguate condizioni di conservazione. Dopo quella data il prodotto non perde comunque le sue caratteristiche nutritive o organolettiche e generalmente non provoca danni alla salute. Generalmente dopo questa data potrebbero però verificarsi fenomeni di alterazioni del prodotto e l’azienda produttrice si tutela definendo quindi il termine entro la quale ciò non accade. Il termine minimo di conservazione non è obbligatorio per la frutta e la verdura fresche (a meno che non siano sbucciate o tagliate e pronte all’uso), il vino e l’aceto, il sale e lo zucchero allo stato solido, i prodotti da forno (pane, focaccia e prodotti da pasticceria freschi), bevande alcoliche con percentuale di alcol superiore al 10%, gomma da masticare e molti altri prodotti.
Al contrario, per i prodotti deperibili dal punto di vista microbiologico e che riportano sulla confezione la dicitura “consumare PREFERIBILMENTE entro il …”, un consumo successivo alla data di scadenza ha maggiori probabilità di creare problemi alla salute o comunque aumentano i rischi di consumare un prodotto con caratteristiche nutritive e organolettiche non più ottimali. Questi cibi sono soprattutto alimenti freschi quali latte, uova (per i quali la legge definisce con precisione le date di scadenza), yogurt, formaggi, verdure e frutta in busta pronti all’uso.
Come leggere data di scadenza
Secondo la legge la data discadenza deve essere
– scritta a caratteri grandi
– scritta in forma adeguata
– apposta in posizione visibile sulla confezione del prodotto
– scritta su sfondi chiari che permettano la corretta lettura della data
– senza riflessi
– indelebile
– scritta egualmente visibile rispetto all’indicazione della quantità del prodotto
In tutti i casi la data di scadenza deve garantire:
– che il prodotto sia conservato in un modo adeguato
– che il prodotto mantenga inalterate le sue caratteristiche nutritive
– che il prodotto mantenga inalterate le sue caratteristiche organolettiche almeno fino al termine della scadenza
Le etichette possono avere caratteristiche differenti a seconda del tipo di alimento trattato.
Vediamone alcuni esempi:
per le uova, si tratta di indicazioni stampate direttamente sul guscio, dove il primo numero di una cifra identifica la tipologia dell’allevamento al quale le galline sono state sottoposte (0= biologico, 1 = all’aperto, 2 = a terra, 3 = in gabbia). Lo Stato di produzione viene invece identificato con la sigla internazionale (IT per l’Italia).
La terza cifra riguarda il codice ISTAT. La quarta identifica invece la Provincia del Comune di produzione. La quinta identifica il nome e il luogo ove è avvenuta la deposizione delle uova.
In basso si trova la data di scadenza o la data di deposizione dell’uovo.
per gli ortaggi e la frutta le etichette sono diverse a seconda che si tratti di prodotti preconfezionati o sfusi. Possono essere etichette adesive, cartelli, anelli o fascette legate al prodotto. In tutti i casi devono indicare gli elementi obbligatori della provenienza, la varietà e la categoria di qualità, gli additivi.
Per la frutta e verdura venduta al dettaglio sfusa, è necessario che il rivenditore apponga sulla merce un cartello sul quale figurino in caratteri chiari e leggibili le indicazioni relative alla varietà, all’origine del prodotto (Paese d’origine ed eventualmente zona di produzione), alla categoria (I, II, Extra, individuata sempre in relazione alle caratteristiche del prodotto come previste dalle specifiche norme di qualità) e agli eventuali additivi aggiunti per il trattamento di superficie.
– sulle confezioni di latte, burro, formaggio e yogurt di produzione industriale devono essere riportate le seguenti informazioni: il nome del prodotto, l’elenco dei suoi ingredienti, il nome e la sede del produttore o dell’azienda che lo ha confezionato, la sua quantità, come conservarlo, la sua data di scadenza o il termine minimo di conservazione. Per questo tipo di prodotti, se gli ingredienti non sono riportati, significa che per produrli sono stati utilizzati solo latte, caglio, fermenti lattici ed eventualmente sale. La presenza di quest’ultimodeve essere invece segnalata nei formaggi freschi, sfusi e nel burro.
Per il latte esiste una specifica legge (169/89), integrata da successivi decreti, che prevede la produzione di diverse tipologie e la cui denominazione deve essere riportata sulla confezione assieme alla data di scadenza. In particolare
-Latte pastorizzato: il termine minimo di conservazione non può superare il sesto giorno successivo a quello del trattamento termico. Può essere venduto intero, scremato o parzialmente scremato e va conservato a 4°C.
-Latte fresco pastorizzato: il termine minimo di conservazione non può superare il sesto giorno successivo a quello del trattamento termico; la pastorizzazione avviene entro 48 ore dalla mungitura. Può essere venduto intero, scremato o parzialmente scremato e va conservato a 4°C.
-Latte microfiltrato fresco pastorizzato: il termine minimo di conservazione è di 10 giorni dalla data di trattamento termico. Va conservato a 4°C.
-Latte UHT: è considerato a “lunga conservazione” e si può conservare per circa 3-6 mesi a temperatura ambiente. Le confezioni dei vari tipi di latte sterilizzato UHT devono riportare il termine minimo di conservazione “da consumarsi preferibilmente entro…” (giorno, mese, anno). Ciò significa che anche dopo la data di scadenza, per un tempo ragionevole, il prodotto possa essere consumato (riguarda più un limite organolettico che sanitario)
-Latte sterilizzato: ha una lunga conservazione a temperatura ambiente, anche oltre i 6 mesi.
per ogni taglio di carne devono essere fornite, mediante un cartello esposto sul banco di vendita o l’etichetta per le carni confezionate, le seguenti informazioni obbligatorie
-riproduzione del bollo sanitario dello stabilimento che ha effettuato il sezionamento ed il confezionamento
-ragione sociale e sede dello stabilimento
-peso netto
-denominazione commerciale: specie, categoria e taglio
-data di scadenza
-lotto di produzione
-modalità di conservazione
Per le carni bovine esiste un sistema di etichettatura più vincolante; oltre alle menzioni richieste per tutte le carni, obbliga all’indicazione di
-codice di riferimento che rappresenta il nesso tra il taglio di carne al banco e l’animale o il gruppo di animali macellato
-Paese di nascita
-Paese (o paesi) di ingrasso
-Paese di macellazione e numero di riconoscimento dello stabilimento di macellazione
-Paese di selezionamento delle carni e numero di riconoscimento del laboratorio
Se le carni provengono da un animale nato, ingrassato e macellato in Italia l’etichetta può riportare l’indicazione “Carni di bovino nato, ingrassato e macellato in Italia” oppure la semplice dizione “origine Italia”. Se le confezioni di carni contengono pezzi
provenienti da bovini diversi, l’etichetta, oltre a quelle obbligatorie, deve fornire esclusivamente le indicazioni comuni a tutte le carni.
Inoltre, il cartellino o le etichette per le carni esposte al pubblico devono recare il prezzo unitario per chilogrammo, la specie e lo stato fisico (fresche, congelate, scongelate).
i cibi in scatola riportano sull’etichetta, oltre alle informazioni previste per legge, la dicitura “conservare in luogo fresco e asciutto”, che non è un semplice consiglio, ma una condizione necessaria affinché il prodotto si mantenga più a lungo. Cìò
significa che, finché la confezione rimane integra, il prodotto deve essere conservato in modo da non subire eccessi di caldo o di freddo.
Cosa Determina la Data di Scadenza degli Alimenti
Come abbiamo già sottolineato, ad eccezione del latte e delle uova, per tutti gli altri alimenti è il produttore che stabilisce la data di scadenza, secondo determinate caratteristiche:
– caratteristiche merceologiche
– trattamenti tecnici a cui viene sottoposto il prodotto e sistemi di conservazione
– tipo di materiale in cui viene presentato o confezionato
– tempo e modo di trasporto
– condizioni climatiche del Paese e della regione nel quale il prodotto deve essere venduto
– frequenza di consumo del prodotto nella popolazione nel quale è venduto
Nonostante il binomio qualità delle materie prime-scadenze prolungate non sia sempre valido, possiamo affermare che in molti casi l’uso di prodotti agricoli e di allevamento di migliore qualità, affiancati a sistemi di produzione e conservazione consoni, sono garanzia di una maggiore durata degli alimenti.
Nella Tabella di seguito viene riportato il risultato, sottoforma di elenco, di un’indagine di mercato che ha permesso di valutare la scadenza media dei prodotti alimentari più comunemente usati. I vari alimenti sono riportati in ordine di scadenza.
Formaggi molli – da 2 giorni a 2 mesi
Pesce – 3 giorni
Latte fresco -5 giorni
Panna fresca da montare -7 giorni
Yogurt fresco – 20 giorni
Uova – 28 giorni
Pasta fresca confezionata – 30 giorni
Prosciutto cotto affettato in busta – 3 settimane
Salsicce fresche – 3 settimane
Cotechini crudi – 8 settimane
Wurstel – 8 settimane
Zamponi crudi – 8 settimane
Latte a lunga conservazione – 90 giorni
Burro – 2 mesi
Coppa in busta – 3 mesi
Pancetta arrotolata in busta – 3 mesi
Salame affettato in busta – 3-4 mesi
Bresaola in busta – 4 mesi
Prosciutto crudo affettato in busta – 4 mesi
Panna conservata – 5 mesi
Caffè sottovuoto – 6 mesi
Formaggi stagionati – 6 mesi
Maionese – 6 mesi
Margarina – 6 mesi
Sottilette – 6 mesi
Vino in cartone – tra i 6 e i 12 mesi
Budini e creme pronti – 9 mesi
Merendine industriali – 9 mesi
Succhi di frutta in tetra brik – 9 mesi
Grissini – 9-12 mesi
Fette biscottate – 10 mesi
Funghi secchi – 12 mesi
Farina – 12-18 mesi
Riso – 12-18 mesi
Surgelati – 12-30 mesi
Pasta all’uovo – 14 mesi
Cotechini precotti – 18 mesi
Cracker – 18 mesi
Olio d’oliva – 18 mesi
Zamponi precotti – 18 mesi
Bibite gassate – 18-36 mesi
Birra – 1 anno
Biscotti secchi – 1 anno
Camomilla – 2 anni
Orzo tostato solubile – 2 anni
Dado da brodo – 3 anni
Legumi, ortaggi, fagioli in scatola – 3 anni
Succhi di frutta in vetro – 3 anni
Thè – 3 anni
Pomodoro conservato – 3-4 anni
Legumi, ortaggi, fagioli in vetro – 4 anni
Marmellate e confetture – 4 anni
Tonno in scatola all’olio – 5 anni
Miele – indefinita. Come spiegato in questa guida, il valore di HMF rappresenta un fondamentale indice di freschezza e dello stato di conservazione di un miele.
Al fine di chiarire maggiormente i fattori che possono influire sul deperimento di un prodotto, va precisato che ogni azienda effettua scelte diverse per i propri alimenti e in base a queste può prevedere quale sarà la conservabilità di un determinato alimento. Tra le variabili più importanti è la scelta degli additivi con ruolo di conservanti e dei processi di produzione che possono prevedere metodologie di sterilizzazione e abbattimento della flora batterica.
L’uso di additivi nelle fasi di produzione e imballaggio degli alimenti permette a molti di questi prodotti di potersi conservare più a lungo ed apparire più presentabili al consumatore per colore e gusto. Secondo la Direttiva 89/107/CEE che ne disciplina l’uso e le caratteristiche, gli additivi sono sostanze normalmente non consumate come alimento in quanto tale ma, poiché aggiunte intenzionalmente ai prodotti alimentari per un fine tecnologico nelle diverse fasi dalla produzione all’imballaggio, possono essere ragionevolmente considerate come ingredienti dell’alimento stesso.
L’uso degli additivi, le quantità e i prodotti di destinazione in cui possono comparire sono fattori strettamente regolamentati dall’Unione Europea: essa infatti ne approva l’utilizzo specifico solo se realmente necessario e se le dosi risultano essere totalmente innocue. Oltre alla Direttiva 89/107/CEE, vige la Direttiva 94/34/CE, attraverso cui gli Stati membri possono vietare l’impiego di determinati additivi nei prodotti alimentari preparati con metodi tradizionali nel proprio territorio.
Sulle etichette dei prodotti alimentari ai quali vengono aggiunti additivi, spesso capita di leggere sigle e numeri di cui non è molto intuitivo il significato. Ebbene, lettere e numeri identificano proprio i diversi tipi di additivi presenti all’interno del prodotto; questi, a seconda della funzione svolta sugli alimenti, sono così raggruppati:
– i coloranti (da E100 a E199): colorano il prodotto o la sola superficie di questo in modo che risulti più invitante. La maggior parte dei coloranti è di origine sintetica.
– i conservanti (da E200 a E299): rallentano o impediscono il deterioramento del cibo da parte di batteri, lieviti e muffe. Il loro impiego potrebbe essere diminuito o eliminato ricorrendo a sistemi di conservazione quali zucchero, sale da cucina, alcol etilico, olio o aceto.
– gli antiossidanti (da E300 a E322): rallentano o impediscono il processo di ossidazione derivante dall’ossigeno presente nell’aria, evitando che il colore del prodotto cambi o si scurisca.
– i correttori di acidità (da E325 a E385): agiscono stabilizzando il grado di acidità e basicità dell’alimento, sia ai fini del gusto che della conservazione del prodotto.
– gli addensanti, emulsionanti e gli stabilizzanti (da E400 a E495): legano i componenti del cibo che altrimenti tenderebbero a separarsi; in particolare, gli addensanti e i gelificanti rendono il prodotto spalmabile e pastoso, gli emulsionanti legano assieme grassi e acqua egli stabilizzanti trattengono l’umidità del prodotto amalgamandolo meglio.
Particolare attenzione deve essere prestata anche al packaging alimentare che, negli ultimi anni, ha avuto un serio sviluppo a livello europeo e internazionale.
Cosa significa che un cibo è scaduto
Quando un cibo è realmente scaduto ovvero “non è più buono”?
Quando un’azienda alimentare esegue dei test sui propri prodotti per determinarne la durata e salubrità, svolge analisi chimiche e biologiche specializzate che verificano se ci sono alterazioni in un determinato alimento e quindi rischi di alterazioni organolettiche. La maggior parte degli alimenti è infatti soggetta ad influenze esterne che ne pregiudicano il valore merceologico, agendo a vari livelli e con differenti combinazioni che possono portare a:
– peggioramento delle proprietà organolettiche
– riduzione della commestibilità
– riduzione del valore nutritivo
– riduzione del grado di salubrità
Le alterazioni possono essere di varia natura e presentarsi singolarmente o contemporaneamente:
– alterazioni fisiche: sono alterazioni che cambiano la struttura della materia; ad esempio, le alterazioni cromatiche o di consistenza dei cibi;
– alterazioni chimiche: modificano la composizione chimico-nutritiva dell’alimento e sono dovute a reazioni o processi indotti spontaneamente su alcuni composti chimici, dotati di una reattività intrinseca, da fattori ambientali quali l’ossigeno dell’aria, la luce, la temperatura. Sono tali, ad esempio, i processi ossidativi indotti sui grassi e sui polifenoli;
– alterazioni biochimiche: modificano la composizione biochimica e nutritiva dell’alimento e sono spesso dovute all’azione di enzimi presenti negli alimenti stessi o alla semplice interazione chimica fra componenti organici dell’alimento; sono tali, ad esempio, le ossidazioni di natura enzimatica o la degradazione delle macromolecole biologiche;
– alterazioni microbiologiche: sono dovute all’insediamento o all’incremento di una popolazione microbica che utilizza lo stesso alimento come nutrimento e substrato di crescita. Le alterazioni microbiologiche possono modificare in modo preponderante gli alimenti cambiando la natura chimico-biologica degli stessi. Rientrano in questo quadro anche le contaminazioni dell’alimento da parte di microrganismi patogeni che, pur non danneggiando intrinsecamente il prodotto, ne pregiudicano la commestibilità per il rischio della salute del consumatore